Attrezzi, oggetti e cose del passato per non dimenticare

Le descrizioni e i disegni sono tratti da "MEMORIE DI COSE" di Luciano Gibelli edito da La Stampa

1) Brusacafè: arnese metallico per abbrustolire o torrefare il caffè o sostitutivi del caffè, formato da due coppe (1b) combacianti a chiudere l'una con l'altra, formanti il Tamburo in cui si metteva la materia da tostare, scuotendolo sul fuoco. L'attrezzo era assicurato contro le improvvise aperture mediante l'incoccatoio (1a) costituito da un anello aggancianbile all'uncino contrapposto, entrambi all'estremità dei lunghi manici che fornivano l'effetto molla per l'incocco.

Il brusacafè s'usava sul focolare del camino, quasi sempre su un braciere ancora fiammeggiante. E poi, in pari con il reumatico gomito destro della nonna, era pure un preciso marcatempo emanando o meno, con il cambiar del tempo, il buon profumo di caffè tostato di cui era impregnato. Ci si serviva anche del

2) Tambur da cafëtté (tamburino da caffè), in cui il prodotto da tostare s'introduceva e si toglieva attraverso la bocchetta (2a). Era in definitiva niente altro che un piccolo tamburo orizzontale il quale anzichè muoverlo sul fuoco rimaneva fermo perchè a girare in tondo nel suo interno era una spatola manovrata da una manovella (2b)

Dopo la tostatura, poi, il caffè, l'orzo o i semi di cicoria dovevano essere trasformati in polvere. Per fare ciò venivano usati i cosidetti macinacaffè, o più semplicemente macinini (moulin à cafè), che trionfavano in tutte le cucine di un tempo, appoggiati sulla trave del caminetto o sulla piattaia. Costituito da un cilidro alto circa 20 cm e con un diametro di 10-15 cm, questo attrezzo, in ferro e metallo, poteva avere dimensioni variabili a seconda della quantità i semi da frantumare.

L'erca farinòira antica "arca" del pane (farinaio). Il mobile più significativo della cucina, una madia sul cui ripiano si usava anche impastare la pasta fresca e al cui interno si usava conservare il pane. L'asse del tavolo ruotava sul suo piano permettendo di accedere in ogni parte del cassone stesso.

«Con la fam el pan dur a ven fròl» recita un vecchio proverbio piemontese, il quale ricorda che se si ha fame, anche il pane duro diventa morbido. Per la tradizione piemontese, tuttavia, la gestione del pan secco costituiva un vero e proprio problema, la cui risoluzione ha richiesto, almeno dal XVII secolo, l'invenzione di uno strumento specifico. Quando il pane non si comprava tutti i giorni dal fornaio più vicino, bensì si preparava in casa e si cuoceva nel forno a legna della borgata, si provvedeva a infornare, in una volta sola, una quantità di pagnotte in grado di coprire il fabbisogno di tutta la famiglia per più settimane. Sebbene conservato in ambienti arieggiati (l'erca farinòira), dopo alcuni giorni induriva inesorabilmente.
Il mociapàn o tagliapane (dal verbo mocè, mozzare)era utile proprio per tranciare le pagnotte e in questo modo potevano essere consumate nel latte, nella zuppa o, previo ammorbidimento, in un panno umido. Il mociapàn era costituito di due parti: un tagliere di forma quadrilatera ed un grosso coltello munito di un gancio ed ancorato al tagliere stesso mediante un anello di ferro.

S-cionfëtta (fornello a carbone) o scaldapiatti. Era un bell'oggetto lavorato in terracotta con la maestria dei vecchi artigiani. La brace introdotta nel suo fornelletto (b) rimaneva rinvigorita dal tiraggio della gratella (b) mantenendo caldo il piatto o il recipiente posato sul suo bordo superiore. Questo tipo di scaldavivande permettave alla famiglia intera o alla combriccola di amici di passare la serata intorno ad un gagliardo tianetto di bagna càuda e proprio dalla sua forma e funzione nacquero più tardi i comodi recipienti individuali per il caldo intingolo.

Vasellame da bagna càuda.

Sulla stufa o sul fornello, insieme al tempo, passarono il tegame (D), che della terraglia da bagna càuda è stato forse l'antesignano, dato che altro non è se non il tianum magnum già noto e diffuso intorno al 1300; la teglia (T), recipiente di terra, sempre senza manici. Il fornellino (S), di rame stagnato, funzionante a brace, con l'incorporata teglietta di coccio, insieme al fornelletto sono derivati dall'uso del fornello (s-cionfëtta) che assicurava meglio il calore alla terrina. Il fornelletto (F) di terra, è diventato ormai il coccio moderno e diffuso tra i buongustai della bagna càuda. Attraversola bocca del fornello (f) s'introduce il combustibile per conservare calda la salsa. Il tiraggio è assicurato dagli sfiatatoi (P).

a) Frà dël let (trabiccolo da letto) o prete, monaca, che a volte mi rese accoglienti le lenzuola invernali nella casa in campagna dei nonni. Era tutto di legno tranne il riparo di latta (un pezzo tondo, probabilmente il fondo ritagliato da una latta) fissato con alcune viti sul ripiano centrale che ne era la base. Quattro assicelle molto flessibili, accopiate, fissate alle estremità e tenute allargate nella parte centrale con quattro gambette. Lo chiamavano Monaca forse per la forma che vista verticalmente rammentava lontanamente il salterio cadente, sulle spalle d'una suora.
Altri, un pò maligni lo chiamavano Prete perchè «teneva caldo» e per altra ovvia allusione. La sua forma era molto funzionante e facilitava la penetrazione tra le lenzuola che teneva allargate affinchè il calore emanato si espandesse e le intiepidisse. La sorgente di calore era principalmente la brace del fornetto o della stufa, ma per le famiglie che potevano spendere era la mota dël prëive o Salamino, ossia un cilindetto lungo dodici centimetri per cinque di diametro di polvere di carbone minerale compressa. b) Lo Scaudorin (scaldaletto piccolo) contrariamente all'attrezzo precedente adatto per il letto a due piazze, serviva per quello ad una. L'attrezzo era in rame, con lungo manico per farlo scorrere sotto le coltri, quasi come un gesto di stiratura delle lenzuola. c) La Scablëtta invece era lo sgabello di latta o di rame o d'ottone, con coperchio forato, per scaldare i piedi sulla quale si appoggiavano rimanendo seduti. Funzionava con la cenere che ha ancora della brace e del fuoco.


Fer da stiré.(L) Era l'attrezzo per stirare che si riscaldava per contatto con una sorgente calorica esterna, quale la fiamma a gas, il braciere o una qualsiasi base riscaldata generalmente rappresentata dalla piastra della stufa.

Fer a cassiòt.(A) Caratterizzato da una cassetta o contenitore dentro cui si poneva la brace prelevata dalla stufa o dal fornello, da ravvivare poi con il carbone di legna che era il combustibile per questi attrezzi. era il popolare ferro, notissimo perchè riprodotto in gran numero d'esemplari per accontentare la passione amatoriale. Il corpo di questo attrezzo costituisce la cassetta alla cui base sono gli aeratori (B) permettenti il passaggio dell'aria che alimentata dal combustiione fuoriusciva, sotto forma di gas residuati, dagli sfiatatoi (C) del coperchio.

Bote 'd cossa (zucche bottiglia). Costituivano la pratica utilizzazione di un prodotto della natura, ossia la cosiddetta Zucca del Pellegrino, nelle sue varie forme(c), che raccolta ben matura si poneva a seccare in luogo riparato dopo di che, apertavi una bocca tonda, si svuotava del contenuto levigandola successivamente all'interno agitandovi sabbia e ghiaietta ben asciutte. Il recipiente si faceva poi avvinare per dargli l'odore ed il sapore del vino, riempiendolo di questo e lasciandolo che s'impregnasse in tutte le sue parti interne, nel corso di una luna intera; ovviamente sostituendo il vino ogni giorno per evitare l'inacidimento e la rovina del recipiente. La lunga e non facile preperazione rendeva la zucca da vino un oggetto prezioso da usarsi con particolare cura e quando per disavventura si fosse incrinata, la si riparava con la pelle di una rana. Non sto a spiegare il lungo e laborioso lavoro che si faceva con la rana. Il vino in questo recipiente si manteneva a lungo fresco come se fosse stato appena preso dal crotin.